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L’insegnante di yoga e autrice di numerosi libri Stefania Redini ci parla del suo incontro con lo Yoga Non Duale del Kashmir e con l’insegnamento di Eric Baret.

Quando entrai, parecchi anni fa, nella sala comunale di Zinal in una fredda mattina di montagna, rimasi colpita dalla nuvola di incenso che si levava accanto a una figura che se ne stava seduta lì, senza dire nulla. Non era la prima volta che mi trovavo di fronte a qualcuno nella posa di meditazione, ma questa volta mi colpì qualcosa che solo dopo capii: c’era, in quella figura, l’assoluta naturalezza di una montagna che sta lì, completamente inserita in tutto ciò che la circonda, e che, senza fare nulla, per la sua semplice presenza, modifica l’ambiente. L’ambiente eravamo noi, arrivati per allargare le nostre conoscenze yogiche, per aggiungere qualcosa al nostro bagaglio di esperienze. Con altrettanta naturalezza la pratica iniziò, e mi fu subito chiaro che non ero di fronte a una usuale lezione di yoga. La sensazione che l’essenza dello yoga si stesse, con immensa semplicità, rivelando. Quando uscii di lì, avevo così la certezza, che non mi ha più abbandonato, di avere trovato l’anello mancante, la pratica che, finalmente, anche sul tappetino continuava senza scollamenti quello che la filosofia dello yoga da sempre ci tramanda.
Ero anche abituata a trasmissioni dove il trasmittente parlava della sua tradizione di appartenenza quasi come fosse una mostrina, una medaglia da appuntare che garantisce o indica qualcosa di chi la indossa.
Eric Baret si sottrae, con risolutezza e pudore, ad ogni tentativo di fargli mettere in vetrina la Tradizione a cui fa riferimento. Alle domande su questa, risponde sovente “la Tradizione è vedere il proprio funzionamento”, tagliando corto al possibile fiorire di ogni fantasia romantica e di ogni speculazione intellettuale.
In un concetto attuale di yoga, che viene identificato soprattutto con la pratica posturale – asana – l’approccio della tradizione del tantrismo del Kashmir schiude impensati orizzonti.

 

La tattilità del corpo pranico: liberarsi dai condizionamenti

Lo sviluppo della tattilità interna è la sua stessa base: gli yogi di questa regione non approcciavano il corpo a partire dai muscoli e dalla percezione muscolare, ma attraverso la tattilità del corpo pranico. Perché questo? Perché eseguendo le posture al livello inferiore, cioè a partire dai muscoli, ne confermiamo e rafforziamo le reazioni riflesse di difesa e chiusura. Questo intende lo yoga quando ci invita a praticare senza sforzo. Fino qui, pensavo che si dovesse rilassare ciò che appariva in tensione. È un approccio giustificato, ma può tenerci tutta una vita nella contrapposizione – tensione/rilascio. Modificando tale approccio, facendo riferimento alla sensorialità, dunque a ciò che è parte della componente sottile del nostro essere, accediamo ad uno spazio interno dove i nostri condizionamenti si rivelano e dove ritornano a essere, essi stessi, spazio libero da condizionamento. L’esplorazione corporea così condotta può trasporsi nel quotidiano, e rivelare i condizionamenti e meccanismi del pensiero. È un procedere sottile e intenso, senza sforzo, naturale. Qualcosa nel nostro modo di essere cambia, perché il corpo, il pensiero e la percezione sono un tutto. La profonda messa a riposo di tutta la struttura muscolare, nervosa, indotta da questo modo di procedere, permette alla posa di rivelarsi, all’energia di propagarsi. Naturalmente c’è integrazione. Yoga.

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